why should I lie?

why should I lie?

Saturday, November 13, 2004

Il Grande Fratello
ovvero
“se li metti al pizzo ti punisco”

Anno 1998-99. C’è il boom della Borsa. Tutti gli italiani, anche la massaia, investono in borsa I loro risparmi. I BOT non fruttano più niente. La Borsa sembra non fermarsi mai. Soldi, tanti soldi che girano vorticosamente tra borsini, acquisti/vendite on-line, agenti a briglia sciolta. Il soldo gira; pagamenti però sempre con I quattrini fra I denti.
Anche grazie all’11 settembre finisce la bolla speculativa, bolla che ha permesso a molti d’arricchirsi, ad altri di perdere qualcosa, ma non troppo. Tutti gli italiani recriminano per aver perso qualche buona occasione.
Cosa ci riserba il futuro?
Le banche, gli istituti d’assicurazione, le organizzazioni finanziare più o meno note si chiedono: come mettere le mani sui quattrini del sig. Rossi? Il quale sig. Rossi ha cominciato a comprare timidamente qualche BOT, ma rimpiange I bei tempi in cui il Numtel faceva storia.
Assicurazioni, banche etc. invitano ?, no costringono, a investire in bidoni tipo Cirio, bond argentini, Parmalat ed altri titoli “junk”.
“Almeno togliamo al sig. Rossi la preoccupazione di doversi prendere una laurea in Economia per poter studiare più seriamente I mercati nazionali e internazionali!”

Qui però interviene il Grande Fratello.
C’è uno studio/rilevazione che non è sufficientemente pubblicizzato. Anzi! meno se ne parla, meglio è.
Che cosa dice questo studio?
1. L’indebitamento medio d’un americano e d’altri popoli con stile di vita simile è vicino al 65%.
2. L’indebitamento medio dei popoli europei è prossimo al 45-50%.
3. L’indebitamento medio dell’italiano è del 30-35%:
I numeri sopra indicati hanno il seguente significato:
Ø Supponiamo che il sig. Rossi produca una ricchezza pari a 1000/anno.
Ø Di questi 1000, glie ne vengono in tasca 100.
Ø Dei 100/anno ne ha già impegnati (mutuo, rate, debiti in genere) 35.
Se il sig. Rossi fosse tedesco, svedese, olandese, si ritroverebbe con un impegnato annuo di 50. Se fosse americano o simile, si ritroverebbe con un impegnato annuo di 60-65.
Il Grande Fratello inorridisce: l’italiano mette troppi soldi al pizzo! Scatena subito una bella campagna di vendite: compri oggi e cominci a pagare l’anno prossimo, tasso zero! Che bello per tutti!
Arriviamo a regime.
Se l’italiano medio guadagna 25,000 Euro/anno, ne può mettere sul mercato ancora un minimo di 3,000-3,500, secondo calcoli molto semplici e immediati.
Moltiplichiamo per 15,000,000 produttori di reddito. Stiamo parlando di oltre 45 miliardi di Euro (90mila miliardi delle vecchie lire). Possiamo lasciare che il sig. Rossi se li faccia fregare dalle banche? Assolutamente no! Noi, grandi benefattori uniti nel Grande Fratello, lo invoglieremo a spendere quei quattrini in modo più piacevole.
Però, direbbe qualcuno, questo in ogni caso smuove l’economia in senso positivo!
Sì, questo è vero, ma solo per l’economia di paesi diversi dall’Italia. Infatti le statistiche indicano che l’ordine di preferenza per l’indebitamento è costituito da:
Ø Mattone d’investimento (unico prodotto made in Italy ma richiede grosse somme)
Ø Auto carrozzoni fuori strada (Giappone, Korea, un po’ Germania e USA)
Ø Home theatre (Cina, Korea)
Ø Televisori ultimo grido e DVD (Cina, Korea, Germania, Giappone)
Ø Play stations e videogiochi (Giappone)
Ø Video camere, fotografia digitale (Cina, Korea, Giappone)
Ø Cellulari sempre più complicati (Cina, Korea)
Ø A questo aggiungi I canoni di Sky, Tim, Vodaphone, Wind etc.
Nota (1): mentre la Korea agisce direttamente sui mercati (Samsung, LG), la Cina appare normalmente con I marchi più famosi dell’elettronica giapponese, americana, inglese e tedesca.
Nota (2): le catene di distribuzione del Grande Fratello sono italiane solo in minima parte.
Come sembrano lontani I tempi di ENI, Mediaset, Tiscali!
Si va meno al ristorante? Si compra un paio di scarpe in meno? I figli non hanno l’astuccio firmato?
Oggi l’italiano medio si sente più povero! Diciamo: è più allineato al resto d’Europa.
Franco

Sunday, November 07, 2004

  • Alla FACCIA
    della CHIAREZZA



    Il caso Buttiglione ci ha aiutato a capire quanto l’ignoranza sia diffusa ai livelli più alti della nostra struttura. Sarò buono di cuore: voglio immaginare che almeno parte di quest’ignoranza possa essere ribattezzata con il nome d’ipocrisia. Mi spiego.
    Parlare di cristianesimo, confondendolo però con il cattolicesimo, è la prima violenza esercitata da un articolista, da un opinionista, dallo stesso Buttiglione. Qualora detta confusione sia creata ad arte, se ne vergognino tutti coloro che applicano questo trucco per deviare l’attenzione da altri aspetti del problema.
    Il principio in base al quale l’Europa debba essere costituzionalmente laica, diciamo alla francese, mi sembra giusto e acquisito. Il principio è giusto perché costituire un’Europa mescolando insieme un numero di credi che comincia ad avvicinarsi a quello delle religioni negli USA, adottandone i principi nella struttura politica, sarebbe pura follia. L’eliminazione degli aspetti religiosi nella costruzione dell’Europa deve anche salvaguardare questo nuovo stato contro la crescente aggressività islamica negandogli, così come a tutte le altre religioni, il diritto d’imporre l’adozione di regole proprie d’un credo nella gestione amministrativa e politica della cosa pubblica. Tutte le religioni siano accettate, tranne che nella struttura dello stato. Secondo me questo è un principio fondamentale (non esplicitato però nel progetto di Costituzione firmato recentemente a Roma)..
    In base al principio generale di separazione credo-stato è opportuno che sia così.
    Tutti sappiamo che alcuni aspetti del laicismo, o meglio della laicità, sono più presenti in paesi dove predominano credi cristiani non cattolici. La Francia, in maggioranza cattolica fa giustamente eccezione in quanto patria della Rivoluzione. E’ anche evidente che alcune delle forme più retrive del cattolicesimo sono più presenti in alcune aree dell’Europa, piuttosto che in altre. Il cattolicesimo, infatti, può spaziare dall’intolleranza religiosa di papi stile Pio XII fino alla mano tesa ai luterani da parte di Giovanni XXIII. Si ricordi che papa Giovanni inviò il suo messo, cardinale Bea, ad esplorare possibilità di collaborazione, mirate forse ad una riunificazione, in paesi fondamentalmente anticattolici come Danimarca e Norvegia. Per consentire l’ingresso del cardinal Bea in Norvegia fu necessario addirittura che il parlamento di Oslo votasse una dispensa speciale, in quanto l’ordinamento giuridico norvegese proibisce (o proibiva?) l’ingresso nel paese ai gesuiti.
    Non parliamo degli anglicani che fanno storia a sé. Gli scontri di tradizioni e civiltà nell’Irlanda del nord costituiscono un monitoraggio delle diversità d’idee e opinioni. E gli ortodossi? Vogliamo dimenticarli? Già sono presenti con la Grecia e Cipro. Arriveranno in seguito Bulgari etc.
    In questa situazione si capisce come l’ingenuo (?) Buttiglione sia agevolmente riuscito a farsi incastrare.
    Gli schieramenti contro erano probabilmente I seguenti:
    Ø Radicali, degni d’ogni rispetto per la loro coerenza;
    Ø Laicisti di qualsiasi estrazione;
    Ø Centro-sinistrorsi, cattolici di sinistra inclusi, che l’aspettavano al passo per sfruttare le gaffe esclusivamente a fini politici;
    Ø Luterani, stanchi di interferenze religiose, cui sono adusi solamente in qualche remoto villaggio scandinavo;
    Ø Ortodossi, che si sentono un po’ emarginati;
    Ø Cattolici intelligenti;
    Ø Gruppi, non necessariamente radicali, schierati contro la famosa legge su procreazione assistita, embrioni etc.;
    Ø Organizzazioni omosessuali;
    Ø Verdi. Questi s’infilano dappertutto solo per fare casino;
    Ø Veterocomunisti, solo per tigna direi, poiché sono forse quelli più vicini ad un credo.

    Quali possibilità aveva un cattolico osservante come Bottiglione di venir fuori onorevolmente da un tale groviglio d’interessi e d’ideologie?
    Vogliamo dire zero?

    Franco

Friday, November 05, 2004

LA STORIA
Così è se vi pare

Non mi sono mai sentito “giudice”, solamente “osservatore”.
Ricordo alcune situazioni dei tempi della mia infanzia quando, in base alle strette regole del “sabato fascista”, venivo letteralmente impacchettato in una buffa uniforme equipaggiata di bande bianche, poste trasversalmente su una camicia nera, e inviato all’adunata della scuola. Età? Dai cinque ai sei anni. Ero fiero della mia uniforme che tuttavia consideravo, e rimaneva, buffa. Mi divertivo anche alle adunate, fino al giorno in cui feci la pipì nei pantaloni dopo un’estenuante parata militaresca alla presenza di “Lui”. Lui non lo vedemmo affatto perché passò in macchina, molto lontano da noi. Il mio ricordo di quel sabato è limitato quindi alla vergogna che provavo al vedere la chiazza della mia pipì diffondersi rapidamente sul cavallo dei calzoncini “velina style”.
Pur mantenendo pancia indentro, petto infuori e testa alta, in quel momento mi sentii un fallito. Ero in ogni caso un vero “figlio della lupa” in una città dove, generalmente, uno poteva essere facilmente appellato “fijo de qualcun’altra”, che in fondo era la stessa cosa.
L’uniforme cambiò quando mi promossero Balilla. Prima di recarmi all’adunata del sabato fascista, l’ultima operazione della vestizione consisteva nell’avvolgimento di una lunghissima fascia nera intorno alla vita così che coprisse la transizione dai calzoncini d’orbace, sempre strettamente “velina style”, alla camicia nera. L’operazione richiedeva il posizionamento d’una mamma in un angolo della stanza, mamma che teneva tesa l’orrida fusciacca, mentre la vittima si arrotolava piroettando nella fascia stessa, facendo ben attenzione a non causare formazione di pieghe disdicevoli per una corretta vestizione dell’uniforme. La vestizione d’un torero faceva ridere al confronto! Ormai ero vicino ai dieci anni. Un vero soldatino!
Un giorno però posi a mia madre la seguente domanda, venuta direttamente dal cuore: “Perché devo andare all’adunata del sabato? E’ una grande scocciatura!” Non usai l’espressione “rottura di coglioni” poiché in quei tempi quel modo d’esprimersi era sconosciuto all’interno delle buone famiglie borghesi.
La risposta di mia madre suonò molto sibillina alle mie orecchie: “Per carità. Non farti sentire da nessuno!” Rimase sibillina solo per qualche mese ancora, fino al momento in cui, ad imitazione della gioventù hitleriana, fui promosso balilla moschettiere e, moschetto in spalla, fui mandato a fare le esercitazioni militari. Dieci anni compiuti. Ero un vero uomo!
Fortunatamente gli “Alleati” stavano avvicinandosi a Roma. I nostri capetti, insegnanti d’educazione fisica e militare, fedeli al motto “credere, obbedire, combattere”, s’inguattarono religiosamente e scomparvero alla vista dei più.
La guerra, ovviamente, non fu solo questo per me. I miei cugini “grandi” erano rispettivamente in aviazione e in genio trasmissioni.Quando ci incontravamo, mi raccontavano le loro azioni di guerra, tutte piuttosto confuse e per niente eroiche, ma perfettamente in linea con l’andazzo delle cose. Ad esempio, il cugino aviatore, di qualifica bombardiere, aveva l’istruzione di mollare tutte le bombe appena in vista del famoso ed equivocato “bagnasciuga” della costa libica. Il suo comandante, soddisfatto, faceva allora dietro-front e tornava verso l’aeroporto italiano. Il bollettino di guerra del giorno successivo avrebbe poi parlato d’incessante martellamento degli obiettivi bellici britannici.
Il cugino del genio trasmissioni fu invece paracadutato, contro la sua volontà, durante un’esercitazione in Abruzzo. Svenne in aria e rimase appeso ad un paracadute aperto insieme alla sua ingombrante radio rice-trasmittente.
Gli storici non parleranno mai dei bimbalilla moschettieri, dei bombardieri che scaricavano le bombe probabilmente in acqua, dei sergenti marconisti svenuti in aria e recuperati, privi di sensi, dopo fortunosi atterraggi.
Così come non parleranno in modo obiettivo e corretto di episodi che nei libri di storia vengono presentati in modo superficiale e incompleto o, addirittura, spudoratamente falsati per tradizione pseudopatriottica.
Sia chiaro: mi riferisco qui alla diffusione di notizie al popolo bue in quanto gli storici, allorché si rivolgono a quelli di pari cultura, specialmente se a livello internazionale quando è più difficile mentire, devono fornire versioni spesso differenti e forse più aderenti alla realtà.
Parliamo quindi d’insegnamento scolastico e di relativi libri di testo.
Cominciamo dai movimenti indipendentisti dell’ottocento.
Ø Venezuela, Colombia, Ecuador celebrano un comune libertador: Simon Bolivar. Questo signore ha, in effetti, portato all’indipendenza I paesi sopra elencati. Ma indipendenza da chi? Dagli Spagnoli. Gli Spagnoli opprimevano e sfruttavano le popolazioni locali, è vero, ma, innanzi tutto, disturbavano la politica dell’Inghilterra, paese che si avviava a diventare la potenza mondiale numero uno. Qualche finanziamento alle persone giuste ha certamente aiutato a dare un risultato positivo alle giuste aspirazioni dei ribelli. Ma quest’ultimo punto lo leggiamo nei testi scolastici?
Ø Il libertador del Chile si chiamava O’Higgins! Direttamente dalla Gran Bretagna? Ho provato ad approfondire l’argomento con un cileno il quale, forse solo per evitare di dimostrarmi la sua ignoranza al proposito, mi ha dichiarato con molta enfasi: “el verdadero libertador de Chile es el Pinochet!”
Ø Spostiamoci di poco. In Argentina il libertador si chiamava José de San Martin. Guarda guarda: I finanziamenti ai patrioti arrivavano dall’Inghilterra. In particolare dalle logge massoniche. Questa è storia locale, sconosciuta forse ai più, ma nota alle persone dotate d’un minimo di cultura.
Ø Da quelle parti si aggirava anche tal Giuseppe Garibaldi, personaggio che ritroveremo nella lotta per l’unità d’Italia; anche lui massone. Troveremo anche I Savoia, egualmente non distanti dalla massoneria. I libri di storia ci raccontano che le camice rosse dei mille erano state un gentile omaggio dell’Inghilterra. Ma solamente le camice rosse? A quanto sembra un altro massone, Nino Bixio, smazzettava abbondantemente I generali borbonici in Sicilia. Non ci vengano a raccontare che circa mille uomini, armati di buoni ideali ma male equipaggiati da un punto di vista bellico, sono stati capaci di sconfiggere un esercito borbonico di dodicimila uomini, per coglioni che fossero! Vogliamo leggere un libricino di Sciascia che ci illumina in proposito? Si chiama “Cronichette”.
Continuiamo con la storia d’Italia. I libri di storia (sempre quelli per il popolo bue) raccontano d’un re, Umberto I, che veniva considerato una specie di padre (la dizione “re buono” andava di moda). Molti altri, invece, lo consideravano una gran carogna. Quest’ultima valutazione era dovuta al fatto che Umberto I aveva dato l’ordine a tal generale Bava-Beccaris di sparare sui lavoratori che dimostravano per aver riconosciuti I loro diritti, l’uguaglianza etc. Ovviamente questo punto di vista è tipico di storici leggermente antimonarchici, ma certamente più onesti. Inutile dire che il “re buono” era invece una creazione di biechi conservatori o di aprioristici adoratori dei Savoia.
In fondo, gli storici avrebbero potuto raggiungere un onorevole compromesso scrivendo la pura verità: Umberto I, il re cornuto. Tutti, infatti, sanno che la regina Margherita amava sollazzarsi a corte e fuori corte alla faccia del suo vetusto consorte.

Grande guerra: Caporetto. Quanti libri ci raccontano che le linee italiane furono sfondate mentre il capo in seconda, dopo Cadorna, ovvero quello che poi divenne il Maresciallo Badoglio, stava passando la nottata in un confortevole letto (alcuni aggiungono: d’un bordello)? Anche lui piemontese e massone, lo ritroveremo più avanti, quando fu chiamato da Pippetto a succedere a Mussolini.

Andiamo al 1922, chez Pippetto.
Si presentano a corte dei personaggi (tutti industriali piemontesi) capeggiati da Giovanni Agnelli, fondatore della FIAT. Questi consigliano sua maestà, loro compaesano per la precisione, di accettare le profferte d’amore d’un tal Benito, “che, in fondo, è un bravo guaglione”. Il discorso è chiaro: l’alternativa comunista che bussa alle porte disturberebbe non poco gli industriali. Gli attori della scenetta e I loro discendenti hanno accuratamente evitato che si parlasse troppo dell’episodio che, guarda caso, anticipa di molti anni il fenomeno delle schedature alla FIAT, dei magheggi con I personaggi politici, dell’ottenimento della cassa integrazione etc.etc.
E quindi Benito impazza. Fa molte cose buone, anche se gli storici cercano sistematicamente d’ignorarle. Ne fa anche di cattive, molte di ridicole.
E gli storici d’oggi, in gran parte nati dopo la caduta di fascismo, nazismo etc., sanno tutto, dico proprio tutto, sul ventennio. Si riempiono la bocca di quanto il popolo italiano abbia sofferto, di quanto il dittatore sia stato odiato. Forse non proprio tutti l’hanno odiato. Forse non proprio tutti hanno criticato al momento giusto le decisioni sbagliate. Non mi risulta che molti, neanche quelli che alla salute dell’anima erano preposti, abbiano condannato ufficialmente le leggi razziali all’atto della loro promulgazione. C’è in fondo una scusante: tutti I papi, I politici, gli storici ad uso popolo bue, avevano sempre attribuito la colpa della morte di Cristo agli Ebrei. In realtà, Gesù era stato ucciso dai Romani, I quali lo consideravano molto, ma molto scomodo. La prima soluzione però faceva molto comodo alle autorità religiose cristiane che così riuscivano più facilmente a piazzare il loro prodotto. Sradicare un convincimento di questa portata ha richiesto tutti i duemila anni trascorsi da allora.
La borghesia (ohi, ohi che razza abietta), ma non solo la borghesia, ha sempre, in maggioranza, approvato la politica del gran capo fino al momento in cui detta politica non ha comportato sacrifici e rinunce un po’ pesanti per l’italiano medio.
Dimenticavo! Badoglio ricompare nel periodo più disgraziato della storia italiana. Sembra quasi che Pippetto avesse dei legami (massonici di sicuro, ma anche altri?) con il controverso personaggio. In questa occasione tutti si adoperano, Pippetto in testa, per fare la peggiore figura che grandi figure dello stato possano fare.

Siamo un po’ onesti! Quando gli eventi sono vissuti in prima persona se ne conserva una “cronaca”. Questa, in generale, è veritiera. In effetti, mi riconosco cronista a partire dalla sfilata romana in onore di Hitler, dalla Mostra dell’Autarchia, certamente a partire dalle prime carte annonarie.
A valle della cronaca viene la storia, in altre parole un’ammucchiata di considerazioni tarate da schieramenti politici, dall’economia, da simpatie ed antipatie, dall’eventuale imbecillità o ignoranza di colui che la scrive. Pur utilizzando documentazione di base affidabile, gli storici danno un’interpretazione di parte, perché di parte sono, i-ne-vi-ta-bil-men-te.
Un discorso tra ”storici” mi ricorda quei dibattiti, spesso roventi, che rabbi decrepiti svolgono da oltre cinquemila anni sull’interpretazione d’alcuni passi delle Scritture. E questo nel migliore dei casi! Molto spesso la complicità tra storici allineati è talmente sfacciata da dare origine a un coro di condanne e disapprovazioni per determinati personaggi ormai considerati come “andati a male” o “indifendibili”.
Altri personaggi invece, vengono ripescati dall’ombra. Se ne esaltano le doti, le grandi virtù, il PENSIERO. Talvolta idee ed azioni dell’uno vengono equamente distribuiti anche sugli altri. Esempio: due di loro pensano “Viva La Libertà”. Uno di loro va in giro, lo dice, si fa dieci anni di galera. L’altro vive all’ombra delle disgrazie del primo, ma tutti e due, vent’anni più tardi, vengono definiti ‘eroi’. Mi sembra molto scorretto: nei confronti del primo ovviamente, e nei confronti di noi popolo bue che, al posto d’un eroe, ne troveremo due, dieci, mille, tutta una popolazione.
Questo è quanto ci propinano gli storici. Onestamente bisogna riconoscere che non sempre il fenomeno è dovuto a cattive intenzioni; molto PEGGIO quando è dovuto a ignoranza.
Perché dico questo? Perché da anni stiamo attraversando periodi di rivalutazione di individui incompetenti, se non addirittura abietti, che hanno certamente lasciato tracce più simili alla bava d’una lumaca che non all’impronta d’un gabbiano.

Il 4 giugno 1944 gli Alleati entravano a Roma. Tutti I Romani ricorderanno l’ingresso trionfale e il passaggio delle colonne di mezzi e soldati a porta San Giovanni, passaggio durato ininterrottamente per diversi giorni. Piovevano pacchetti di chewing gum, di cioccolato, di sigarette, lanciati dai militari americani che così volevano anche dimostrare la differenza tra Liberatori e Occupanti.
Ma la vera storia era già stata scritta un paio d’ore prima, quando le prime pattuglie risalivano la via Emanuele Filiberto verso piazza Ettore Muti, pardon, piazza Vittorio. Ho visto un gruppo di soldati americani avanzare su un lato della strada. Lungo il marciapiede opposto camminavano con difficoltà due soldati tedeschi che sorreggevano un terzo militare ferito. Lo sguardo degli americani diceva: vorremmo tanto aiutarvi, evitare di prendervi prigionieri, permettervi di fuggire e alleggerire la vostra situazione. Nessun astio. Nessun disprezzo. Solo pietà e rispetto.
A duecento metri di lì, nel tunnel di Santa Bibiana, un gruppo di persone, giustamente esasperate dalla lunga occupazione tedesca, aveva bloccato una dozzina di soldati della Wehrmacht in ritirata e li stava pestando. Attenzione! Tutti sapevano già che a pochi metri da loro c’era il potente esercito alleato!
I due eventi sono cronaca e storia, ma nei libri non li troveremo mai, così come non troveremo mai migliaia d’altri episodi, fossero essi eroici, squallidi, esaltanti o deprimenti.
Nessuno di noi ama essere truffato. Però, siamo continuamente oggetto di truffa.
Le fosse di Katyn, in Polonia (per chi non lo ricorda, 18,000 tra intellettuali, professori universitari e ufficiali polacchi trucidati) furono opera dell’armata rossa. L’EIAR (la RAI dell’epoca) lo comunicò subito dopo la scoperta delle fosse. Finita la guerra, Katyn divenne sinonimo della crudeltà...nazista. Solo in tempi più recenti è stato restituito a Stalin il merito dell’operato, sempre però con il commento escusatorio: in quegli anni i russi collaboravano con i tedeschi per spartirsi la Polonia! Perché? Gli italiani non collaboravano con i tedeschi per spartirsi la Jugoslavia? Il nostro esercito non massacrava la resistenza in Montenegro? (Visitate il monumento alla memoria delle vittime delle fucilazioni poco fuori Katar). Vietato parlarne? Negli altri paesi se ne parla (Francia 1970). Da che pulpito etc.: chi nella Francia del 1970 osava parlare delle camere a gas che il generale Massu aveva fatto installare ed aveva ampiamente, anche se solo artigianalmente, utilizzato in Algeria? Chi è riuscito a vedere in Francia il film di Gillo Pontecorvo „La battaglia d’Algeri“? Il più pulito cià la rogna, si dice a Roma.
Purtroppo, la considerazione da fare è ancora più deprimente: lo storico non può e non deve raccontare cose troppo destabilizzanti al suo popolo bue di lettori.
Un piccolo dettaglio: ho lavorato per oltre cinque anni a Parigi. Ufficio sui Champs Elysèes (che culo, eh?). Edicola internazionale sul marciapiede di fronte all’ufficio. Erano gli anni sessanta: De Gaulle impazzava. I giornali italiani a quei tempi non erano stampati a Parigi in simultanea con l’Italia bensì arrivavano con i primi voli del mattino. Alle undici e trenta del mattino c’era quindi il Corriere della Sera in edicola. Lo compravo regolarmente. Salta un numero. Ne salta un altro. „Sa, l’aereo era molto in ritardo etc.“
Chiedo a un amico italiano di conservarmi la raccolta di due mesi del Corriere. Quando finalmente ho l’opportunità di confrontare la mia raccolta con la sua, constato (in realtà senza troppa meraviglia) che tutti I numeri a me mancanti contengono articoli piuttosto pesanti nei confronti di De Gaulle. La censura noi? Ma sei matto? Noi…la rivoluzione…liberté, égalité, fraternité…le guerre contro I tedeschi…
Nel mio piccolo, non ho contribuito a fabbricare un po’ di storia?
Ne sono però rattristato. Quelli che non sono “osservatori” come il sottoscritto, devono sorbirsi il contenuto di uno dei tanti Le Monde, Repubblica, NYTimes, Corriere, Stampa etc., purtroppo uno per volta, senza troppe possibilità di confronto. Almeno, ai tempi dell’URSS, c’era la Pravda, sempre bella rossa, ma inequivocabile. Questo era un vero punto di riferimento considerato falso a priori, ma pur sempre qualcosa.
Oggi? Non esiste un punto di riferimento: le Simone sono eroine; Quattrocchi e Co. dei biechi mercenari. Il calzolaio spagnolo ha fatto bene a ritirare I suoi. Berlusca invece: “No Martino! No parti!” (Risatina, per favore!)

E ancora cronaca. Certamente non storia.
Prima di trasferirmi nei lussuosi uffici dei Champs Elysées, lavoravo a Copenhagen come ingegnere presso una ditta danese.
Anno 1962: vengono pubblicati due libri su Mussolini, ambedue in lingua inglese. Uno dei due era stato scritto da un professore di storia inglese che durante la guerra era stato inviato come ufficiale sul fronte di Cassino, l’altro dalla signora Laura Fermi, vedova del premio Nobel Enrico.
Un giornalista della radiotelevisione danese, John Danstrup, chiede a un amico comune italiano di scrivere una recensione dei due libri. Questo amico comune, che chiameremo con il suo vero nome Elio, parla e scrive un danese assolutamente perfetto, ma non conosce(va) l’inglese. Quindi chiede a me di leggere e buttar giù la recensione in italiano-danese maccheronico. Una volta discussa e ripulita (lavando I panni nel Sund, direbbe il Nostro), verrà registrata su nastro da Elio e consegnata a radio Copenhagen.
I ventiquattro minuti di trasmissione saranno un successo. Ne scriveranno tutti I giornali. Sia ben chiaro: ancor oggi, rileggendo il mio testo, non riesco a giudicare se sia stato scritto da un fascista, da un comunista, da un anarchico o da una persona qualunque. Si tratta di pura recensione senza alcun fine politico.
Per evitare eventuali inesattezze storiche, avevamo anche sottoposto il testo finale al consigliere politico dell’Ambasciata d’Italia (di cui non faccio il nome per amor di patria). Questo gentil signore non andò più in là del titolo. Ci fece il seguente discorso: “anche se residenti in un “paese lébbero e democratteco come la Danemarcca e cittadini d’un paese lébbero e democratteco come l’Italia, argomenti del genere dovvete trattare,ah?”.
Giovani ed entusiasti ci precipitammo a radio Copenhagen e ottenemmo il successo di cui sopra, accompagnato però da una bella schedatura da parte dei Servizi italiani. Alla faccia della “lebbertà e della democrazia” regnanti in Italia!

Sempre cronaca, mai storia!
Solo per un caso ho lasciato Parigi la sera in cui sono scoppiati I disordini del maggio ’68. Sono arrivato a Roma in treno insieme a moglie e figlio la mattina successiva. Notizie contrastanti alla televisione italiana: la rivoluzione s’estende a tutta la Francia; gli operai della Renault s’uniscono agli studenti; Pompidou, a Roma per discutere con il Papa del futuro delle scuole cattoliche in Francia, rientra precipitosamente a Parigi da dove De Gaulle è fuggito.
Dov’è De Gaulle? A Baden Baden (kommandantur delle forze d’occupazione francesi in Germania), presso il suo amichetto (criminale di guerra? Si saprà mai se sì?) generale Massu. Caro Massu, schierami una bella divisione corazzata intorno a Parigi. Così quegli ingrati impareranno a trattare un po’ meglio questo vecchio combattente che tutto ha dato per il suo paese e blà, blà, blà.
Sempre per caso, passando dal Belgio, incontro I mezzi corazzati che bloccano tutte le vie d’accesso a Parigi. La mia macchina, Hertz belga guidata da passaporto italiano, passa senza difficoltà i posti di blocco. Stranamente, nessuno di questi è al confine con il Belgio, confine lasciato completamente sguarnito. Sono tutti distribuiti nei paesini della gita domenicale, forse perché ci si mangia bene.
A Parigi nei supermercati si trova solamente foie gras e champagne. Pane, carne, broccoletti e tutti I commestibili più popolari sono scomparsi. Traffico vicino a zero: manca la benzina. Mortalità quasi nulla.
In ufficio mi chiedono perché sia rientrato e mi consigliano di tornare in Belgio dove tutto certamente funziona. Infatti, la sera stessa riparto e supero senza difficoltà la cintura d’acciaio di Massu.
Rientrerò a Parigi tre settimane più tardi. Pompidou ha trattato, non tanto con gli studenti, quanto con gli operai. Dieci per cento d’aumento a tutti e la situazione si risolve per incanto. Risultato: io, che già guadagnavo piuttosto bene, mi ritrovo con un aumento d’entità pari a un intero stipendio d’un operaio Renault. Pompidou avrebbe dovuto scrivere un trattato: “Del come fregare I sindacati”.

Storia o cronaca? Andiamo avanti.
Anni ’70. Per lavoro mi reco spesso in URSS. Sono I tempi di Breshnev.
Incontro decine di persone dei vari ministeri, quasi tutti burocrati. Fa eccezione un certo dottor Spartak (faccio il suo nome per due ragioni: ne parlo solo bene e con grande ammirazione; secondo: purtroppo è morto negli anni ’80). Questi, oltre ad essere un economista d’eccezione, fa parte di un’organizzazione molto mal vista dal governo centrale, diciamo qualcosa del tipo “Mosca Nostra”.
Riunioni di programmazione, progetti, raccolte di contributi, contrattazioni in nero, tutto per salvare monumenti dell’antica Mosca, in gran parte monasteri piuttosto malconci a causa dell’incuria e del degrado.
Ricordo una domenica di sole splendente quando Spartak mi conduce al monastero Donskoy dove “in attività” c’è solo il cimitero annesso. I monumenti funebri risalgono all’ottocento. C’è la tomba di famiglia dei principi Galizin e di altri nobili moscoviti (non molti, dato che in quei tempi la dolce vita russa si svolgeva prevalentemente a Pietroburgo).
Spartak si ferma in prossimità d’una tomba molto semplice posta quasi al centro della necropoli, sussurra: non guardare mai verso I quattro angoli del portico che circonda quest’area. Ora dimmi: cosa vedi di diverso in questa tomba antica? Rimango interdetto. Automaticamente sarei portato a guardare verso il portico, capisco però che da lì qualcuno sta guardando noi; mi trattengo. Osservo la tomba. Non vedo niente. Spartak insiste. Ancora niente…poi, sì ci sono dei fiori. Su nessun’altra delle vecchie sepolture ci sono fiori. Spartak: usciamo; poi ti spiego.
La tomba è quella d’un tenente della guardia imperiale, anni 1850-1860. Il tenente aveva molte idee progressiste che davano non poco fastidio allo zar e al suo entourage. Fu internato in una clinica per malattie mentali dove poi morì.
Breshnev aveva ereditato il vizietto di far internare I suoi avversari in manicomi di stato. I dissidenti russi avevano perciò scelto il tenente della guardia imperiale come simbolo del loro movimento e ogni giorno comparivano fiori freschi sulla sua tomba senza che I KGB, appostati nel portico, riuscissero ad individuare il responsabile.
Questa sì lo confesso, non è storia…è l’espressione poetica d’un popolo meraviglioso!

Anno 1983: Kuwait. Stiamo completando la costruzione d’un impianto nell’area industriale del porto di Shuaiba. Quest’area si trova ad una trentina di chilometri in linea d’aria dallo Shat-al-arab (Irak) e a venti chilometri dal confine Saudita. Di fronte, sull’altra sponda del golfo, c’è l’Iran.
L’eco dei bombardamenti iraniani su Bassora arriva come un tuono continuo. L’aviazione kuwaitiana sorveglia regolarmente I suoi confini utilizzando prima vecchi F -qualcosa americani, poi MIG ultima generazione.
Si capisce bene da che parte stiamo. Almeno due volte la settimana, durante la notte attraccano al porto di Shuaiba navi cariche di armi, soprattutto pesanti (carri, cannoni, camion, missili) che subito partono in convoglio verso l’Iraq. Sbarcano anche quantitativi enormi di grano. I camion ne perdono una piccola quantità lungo la strada. Ai lati della strada I semi germogliano grazie all’umidità della notte così che la separazione deserto-asfalto è ora realizzata mediante una bellissima aiuola verde.
Nazionalità delle forniture? Tutto è rigorosamente coperto da teli; sporgono solo I musi d’alcuni camion che sembrano di fabbricazione ceca. Le bandiere delle navi che trasportano tutto questo materiale sono le più varie e quindi non forniscono indicazioni. Noi comunque siamo ufficiosamente invitati a non vedere.
La mattina del 13 dicembre, alle 10 esatte ora locale, sei kamikaze entrano in azione (si scoprirà che sono sciiti iraniani d’accordo con un paio di kuwaitiani).
Obiettivi: l’ambasciata americana a Kuwait City, il centro di comando della distribuzione d’elettricità in Kuwait, un quartiere residenziale abitato da famiglie americane, un impianto di hydrocracking a meno di cento metri dal nostro cantiere, la torre di controllo dell’aeroporto, altro obiettivo non rivelato.
In totale muoiono 23 poveri Bangladesh in fila all’ufficio consolare dell’ambasciata americana mentre erano in attesa di visto. Tre dei kamikaze ci lasciano le penne, come da copione. Gli altri, probabilmente forniti d’un quoziente intellettivo più alto, sono saltati dai veicoli in corsa. La giustificazione dell’attacco è ovvia: il Kuwait aiuta l’Irak contro l’Iran.
Ci siamo salvati per un pelo, grazie alla vigliacca intelligenza del kamikaze di nostra competenza. Si consideri infatti che un reattore d’hydrocracking contiene idrogeno a 120-130 atmosfere di pressione. Saltando dal camion, carico di bombole di gas, il mancato kamikaze ha lasciato che questo andasse a disintegrarsi contro un pilastro di cemento. Questo pilastro era comunque a non più di trenta o quaranta metri dal reattore e a cento metri dalle nostre baracche di cantiere.
Questa è la cronaca. Non ho mai verificato se più tardi sia diventata anche un piccolo paragrafo in qualche libro di storia. Considerando la notevole dose di sedere avuta, questo sarebbe per me assolutamente irrilevante.
Dimenticavo: per evitare che lasciassimo in braghe di tela l’industria kuwaitiana, le autorità del paese hanno sequestrato immediatamente I passaporti di tutti noi tecnici stranieri.

Altra cronaca? Da dove cominciamo? Dal fermo e conseguente cattività d’una nostra squadra di lavoro in Kuwait al momento dell’invasione Irakena? Dal loro trasferimento a Bagdad per essere usati come scudi umani durante la prima guerra del golfo? Se la sono cavata con un mesetto di prigionia: sono stati scambiati con due carichi di medicinali.
O dal sequestro di due miei colleghi in Colombia? Solo sette mesi di cattività corredata della perdita di venti chili di peso.

O dalla storia del direttore di progetto d’una ditta con cui collaboravamo in Colombia che, al suo arrivo dall’Italia è stato sequestrato dalle sue stesse body guards, che lo attendevano in aeroporto, e sottratto così al sequestro della guerriglia locale?

O dalla storia di tante body guards preziose per la protezione di persone troppo esposte, pronte a intervenire, pronte a guadagnarsi correttamente ed onestamente la loro parcella?

Ma questa non è storia. Spesso non fa neanche cronaca.

Franco